Il disastro del Vajont

Ottobre 30, 2009 0 Di wp_14635186

Ora qui c’è solo terra, erba ed alberi; una vecchia e stanca diga che ha lavorato veramente poco nella sua vita; qualche ferro storto e arrugginito. Ma quella che andrò a raccontarvi è la storia di una tragedia annunciatissima.Alcune immagini e informazioni inerenti questa catastrofe le ho recuperate dal sito ufficiale del disastro, che ringrazio fin d’ora.
Le vittime
Da dove cominciamo? Dalla fine? più di 1900 morti, ma il numero preciso non si saprà mai dato che moltissimi corpi non sono mai stati riconosciuti e molti neppure ritrovati.
Il Nome
Vajont, scritto con la ipsilon e non con la i, è il nome del fiume che attraversa la valle dove è stata costruita la diga. Il nome vuol dire “va giù”, “corre giù”, a testimonianza del fatto che questa valle non è uguale alle altre e non a caso è stata scelta per la costruzione della diga. Il fiume ha scavato nell’arco dei secoli, una profondissima e ripida gola che poi sfocia proprio davanti a Longarone. Ecco gola e diga in lontananza viste dalla periferia di longarone.
La tragedia
Il disastro del Vajont fu causato da una frana staccatasi dal versante settentrionale del monte Toc il 9 ottobre 1963. Alle ore 22.39 di quel giorno, circa 270 milioni di m3 di roccia scivolarono, alla velocità di 30 metri al secondo, circa 110 km all’ora, nel bacino artificiale sottostante che conteneva 115 milioni di m3 d’acqua al momento del disastro.Il bacino era creato dalla diga del Vajont, di tipo a doppio arco, la sua altezza era ed è di 264 metri (la quinta diga più alta del mondo) con un volume di 360.000 metri cubi e con un bacino massimo di 168,715 milioni di metri cubi. All’epoca della sua costruzione era la diga più alta al mondo.
L’impatto con l’acqua generò tre onde: una si diresse verso l’alto, lambì le abitazioni di Casso e ricadendo sulla frana andò a scavare il bacino del laghetto di Massalezza; un’altra si diresse verso le sponde del lago e attraverso un’azione di dilavamento delle stesse distrusse alcune località in Comune di Erto-Casso e la terza (di circa 50 milioni di metri cubi di acqua), scavalcò il ciglio della diga che rimase intatta, ad eccezione del coronamento percorso dalla strada di circonvallazione che conduceva al versante sinistro del Vajont e precipitò nella stretta valle sottostante.
Ecco una ricostruzione sommaria in 3d.
I circa 25 milioni di metri cubi d’acqua che riuscirono a scavalcare l’opera, raggiunsero il greto sassoso della valle del Piave e asportarono consistenti detriti che si riversarono sul settore meridionale di Longarone causando la quasi completa distruzione della cittadina (si salvarono il municipio e le case poste a nord di questo edificio) e di altri nuclei limitrofi e la morte, nel complesso, di circa 2000 persone (1450 a Longarone, 109 a Codissago e Castellavazzo, 158 a Erto e Casso e 200 originarie di altri comuni) ritrovate tutte indistintamente nude per la forza dello spostamento d’aria. Vennero inoltre danneggiati dall’inondazione gli abitati di Pirago, Faè e Rivalta e le frazioni di Frasègn, Le Spesse, Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana e San Martino. Dei circa 2000 morti, sono stati recuperati solo 1500 cadaveri, la metà dei quali non è stato possibile il riconoscimento.
Longarone prima e dopo la frana (ingrandibile).Le avvisaglie
Moltissimi indizi potevano scongiurare la tragedia che è avvenuta a Longarone. Guardate questa foto: è il 4 novembre 1960 e lago del Vajont è al suo massimo storico. 700 mila metri cubi di terra franano (dal punto 2) nel bacino creando una ondata che oltrepassò la diga senza fare danni. Altra foto del lago pieno e della frana del 4 novembre 1960.
Nei mesi successivi si forma una gigantesca frattura nel versante del monte Toc che da verso il bacino. E’ una fenditura che in alcuni punti è larga anche 50 cm ed è lunga in totale 2000 metri.
E’ il segno inequivocabile che la montagna sta lentamente scivolando dentro il lago. Anche perchè, sfortuna vuole che la conformazione rocciosa della valle sia fatta in modo tale che le inclinazioni dello strato roccioso siano tutte puntate verso il fondo valle come si vede nella foto sotto scattata proprio a fianco della diga.Questa situazione ha fatto si che la terra, con l’aiuto dell’acqua, abbia trovato uno scivolo perfetto su cui scorrere.
La zona
Ecco un pò di cartografia per capire com’è fatta la zona e che punti ha interessato.
Qui sotto vediamo (ingrandibile) la diga al centro della cartina, e segnato in azzurro la propagazione dell’acqua nelle varie direzioni.Ecco la stessa zona vista dal satellite (ingrandibile).
Ecco Longarone com’è oggi (ingrandibile). Notate la confluenza del Vajont con il Piave.
Zommiamo sull’ex bacino (ingrandibile)
Qui si può capire meglio la proporzione degli eventi. In azzurro com’era il lago prima della frana. In rosa la zona da cui si è staccata la massa di terra e pietra. In bianco la zona che occupa oggi tutta la terra caduta nell’invaso.
Le immagini di allora
La diga prima della frana.Una foto scattata subito dopo la frana.Il vuoto lasciato dalla frana sulla parete del monte Toc.
La sponda opposta a quella della diga a Longarone subito dopo il disastro. Dove vedete quella distesa di fango, sorgeva Longarone.
Ancora Longarone nelle ore immediatamente dopo la frana.
Altra foto della stessa zona. Si vede ancora il lago lasciato dall’inondazione che si è mischiato con il letto del fiume Piave, interrotto drasticamente.
I soccorsi al lavoro a Longarone.
Gli alpini, tra i primi ad intervenire in massa, intenti ad estrarre i cadaveri.
Il campanile di Pirago, unica cosa che si è salvata dell’intero paese!
Una mucca sbattuta contro il muro di una casa.
La diga oggi.
Ed ora passiamo alle foto che ho scattato domenica scorsa a completamento del week end friulano di cui potete vedere qui la prima puntata e qui la seconda.
Arrivando a Longarone da Belluno la diga ci compare sulla destra. La si vede che spunta in mezzo a quella stretta gola che sovrasta la valle. Longarone oggi non mostra segni evidenti del disastro, è una città (4000 abitanti) completamente ricostruita con le sue case e le sue strade. In centro possiamo visitare il Museo del disastro che ospita numerose foto, il plastico della diga e molto altro. Ecco alcuni scatti fatti dalla piazza dove sorge il museo, verso la diga del Vajont.Sono entrato al museo per chiedere informazioni sulla diga, e con mia grande sorpresa ho scoperto che ero capitato proprio in uno dei pochi giorni all’anno in cui la diga è visitabile. Allora ho ripreso l’auto e sono salito verso la valle del Vajont.
Dopo 15 minuti di strada eccoci al cospetto della diga. Mentre si arriva la si può scorgere di sfuggita tra una galleria e l’altra, che permettono il transito delle auto nella valle, solo a senso unico alternato.
Ecco la diga come si presenta oggi vista dall’inizio della frana.
Parcheggio l’auto, acquisto i biglietti di ingresso alla diga e attendo che la guida del mio gruppetto di persone arrivi nel punto di ritrovo.
Ecco la frana vista dal parcheggio (ingrandibile). Si vede bene anche la chiesetta costruita in memoria dei caduti, il punto da cui si è staccata la frana e la diga.
Qui il responsabile della Pro-loco, la nostra guida, ci spiega tutto quello che è avvenuto nella zona, compresi aneddoti raccapriccianti. Si racconta che la cuoca del cantiere che sorgeva ancora di fianco alla diga, la sera del disastro sia stata sbattuta verso l’alto dall’ondata, e che sia stata ritrovata tra le prime case di Casso che si trova quasi 200 metri più su. La freccia indica all’incirca il punto di ritrovo della cuoca.Passiamo davanti alla chiesetta commemorativa.
Ci avviciniamo alla diga. Siamo un gruppo di 15 persone circa e ci viene detto che dobbiamo stare tutte vicine senza prendere strane iniziative.
Entriamo nella zona recintata.
La diga è alla nostra sinistra.
La spiegazione prosegue anche grazie alle vecchie foto e grafici che sono disposte lungo il percorso.La diga in costruzione.
Eccola completata.
La diga prima del disastro. Si vede molto bene il segno della frana del ’60. Visibile anche la cabina di comando.
Dopo un breve tratto dove si costeggia la parete di roccia, saliamo sulla diga vera e propria.
Al posto della strada che metteva in comunicazione una sponda con l’altra, ora è stata costruita una passerella ancorata al coronamento della diga.
In questa immagine si vedono bene la strada sopra la diga e la cabina di comando, entrambe andate distrutte dall’onda.
Il posto ha un che di spettrale.
Gli unici segni rimasti del passaggio dell’onda.
La diga ha resistito a sollecitazioni ben più grandi di quelle previste dai suoi costruttori.
Il fiume Vajont, in seguito, è stato fatto passare sotto la montagna attraverso un lungo tunnel e ora sfocia da un enorme tubo ai piedi della diga stessa.
D’altro canto la diga ormai non la poteva levare nessuno dal corso del fiume, e da qualche parte l’acqua doveva essere per forza deviata, pena, altri crolli e pericoli.
Arrivo dall’altra parte della valle dopo aver attraversato tutta la diga.
Longarone visto dal coronamento della diga.
Da questo lato era stata costruita la cabina di comando che qui vediamo in una vecchia foto. Ora tutto quello che è rimasto è questo pezzo di pavimento piastrellato e messo sotto vetro.
La voragine da qui è da vertigini!
Si torna indietro.
Mi lascio la diga alle spalle. Al posto dell’acqua oggi, questo mostro di cemento, contiene, terra, alberi e sterpaglie.
Un immagine emblematica: la diga, la frana e la zona del distacco.
I plastici visionabili in loco che “raccontano” come è mutata la zona dal punto di vista idro-geologico.
La valle prima dell’invasione d’acqua dovuta al riempimento della diga.La valle prima del crollo con il nuovo lago trattenuto dalla diga.
Il momento del crollo con la propagazione delle onde.
La valle dopo il crollo.
I video.
Uno speciale molto interessante che ricostruisce tutto l’accaduto: dalla costruzione della diga al disastro.



Uno stralcio del bellissimo monologo di Paolini intitolato Vajont, andato in onda alcuni anni fa su Rai Due.

Un sunto dello speciale trasmesso du History Channel il 10 ottobre 2008 in occasione del 45° anniversario.

A conclusione di questo lunghissimo post volevo ricordare ancora le persone scomparse quella notte del 6 ottobre 1963. Penso che nessuno potrà mai dimenticare questa immane tragedia causata dalla natura con la fortissima complicità dell’uomo. Nessuno potrà mai dimenticarla anche perchè a testimonianza del fatto c’è la più grande lapide che mente umana potesse concepire. Una lapide di cemento alta 246 metri che si erge proprio davanti a Longarone e che perlomeno una utilità ora ce l’ha.
(TPP) 5 ore e 30.